Categorie: Arte

Dentro lo scrigno di Mangone. Un giorno tra le tele che sanno di vita e di eterno

C’è un tempo in cui le parole tacciono, ed è il tempo dello stupore. Oggi sono entrata in un luogo che non si può definire semplicemente laboratorio. È uno scrigno. Uno scrigno vero, grande, silenzioso, luminoso come certe stanze dell’infanzia che ricordiamo solo nei sogni. E dentro, c’erano tele, pennelli, sedie dipinte, scarpe che raccontano, colori versati come pensieri, tracce, intralci, percorsi tracciati come mappe dell’anima.

È la bottega, grande, di Fernando Mangone, pittore del Sud, uomo denso di memoria e visione. Un artista che dipinge non per decorare il mondo, ma per capirlo, per rimettere insieme i suoi pezzi, per salvarlo — forse.

Luce nelle tele

Fernando Mangone adotta una tecnica pittorica in cui la fluorescenza diventa linguaggio espressivo: le sue opere si accendono di luce propria, sprigionando bagliori intensi e vibranti che travalicano la tela per invadere lo spazio.

Colori luminosi, quasi fosforescenti, trasformano la pittura in esperienza percettiva, tra visione e sensazione. È soprattutto in controluce che l’effetto si amplifica: le campiture si animano, i contrasti si esaltano e la luce sembra emergere dall’interno dell’opera stessa.

Fernando Mangone

Il sacro nell’arte

Mentre parlava delle sue opere, dei suoi strumenti, delle sue tavolozze, mi sembrava che si raccontasse. C’era qualcosa di sacro nel suo modo di posare lo sguardo sulle cose: una forma di attenzione gentile, quella che si riserva alle creature fragili, o alle rivelazioni. E in effetti, lì dentro, qualcosa mi ha commosso profondamente.

I colori dell’alba

La sua tavolozza è un caleidoscopio di emozioni, un’eco di luce che danza tra le forme, nei colori solari, e nei rossi vivi, nei gialli ardenti si posa la serenità, sboccia la gioia, come un’alba che riscalda il cuore. Ho pianto, sì. Non per tristezza, ma per riconoscimento. Come quando trovi un gesto che ti somiglia, un segno che ti comprende.

Il tempo solo una convenzione

C’è qualcosa, nell’arte di Mangone, che tocca la parte più nuda di noi. Forse è quella sua capacità di annullare il tempo: di farci sentire contemporanei al Tuffatore, agli dei, ai morti antichi, ai poeti, agli uomini e alle donne che verranno.

Il tempo, qui, non esiste. È un’invenzione, un trucco che l’arte dissolve con grazia. In ogni tela, in ogni pennellata, si sente la vita. Ma una vita che non ha paura della morte, perché ne conosce il superamento. Come se tutto – l’uomo, la natura, il silenzio – fosse parte di un’unica sostanza. Un’essenza lieve e tenace, che si chiama esistenza.

Entrare in quello spazio è stato come entrare in un tempio

Mi ha fatto pensare agli Uffizi, sì, ma con qualcosa in più: la forza del presente, il respiro caldo del fare, la presenza viva dell’artista tra le sue opere. Un po’ di sindrome di Stendhal, l’ho avvertita. Ma senza vertigine: con gratitudine. E così esco, oggi, da quello scrigno con il cuore pieno. Piena di una bellezza che consola e ferisce. E non saprò mai perché.

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di Ornella Trotta

Ornella Trotta

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