Università e solitudine, l’invisibile dramma
Cosa resta di un giovane o di una giovane che si toglie la vita? Il dolore, il vuoto lacerante, incolmabile, le lacrime. Cosa facciamo per prevenire queste tragedie? Siamo consapevoli del dramma che vivono? Le domande scrivano autentiche quando si commenta l’ultima tragedia registrata a Fisciano.
L’ennesima tragedia all’Università di Salerno ci pone di fronte a una realtà che spesso ignoriamo: la solitudine e il disagio psicologico che molti studenti vivono in silenzio. Il recente suicidio di uno studente, ventisettenne che da anni non sosteneva esami e probabilmente ignorava di essere decaduto dalla carriera universitaria, è il simbolo di un sistema che troppo spesso lascia indietro i più fragili.
Non si tratta di un caso isolato. Negli ultimi anni, il campus di Fisciano è stato teatro di altri suicidi, segnali di un malessere che non può più essere taciuto.
Quando l’università diventa una prigione
L’università, che dovrebbe essere un luogo di crescita e realizzazione, si trasforma in una prigione invisibile per chi si sente inadeguato, fuori tempo, incapace di soddisfare aspettative sempre più alte. Il mancato superamento di esami diventa un peso insostenibile, una vergogna da nascondere, fino a schiacciare completamente chi ne è vittima.
Università e solitudine
Il problema non è solo accademico, ma culturale. Viviamo in una società che misura il valore delle persone in base alle loro performance, che stigmatizza il fallimento e non lascia spazio agli errori.
Lasciati soli
La verità è che gli studenti in difficoltà vengono lasciati soli, senza un vero sostegno psicologico, senza un punto di riferimento che possa aiutarli a rialzarsi. La burocrazia universitaria, invece di essere un ponte verso la ripresa, diventa un muro che isola e allontana.
La vita non è una gara
Ma forse il vero cambiamento deve partire da più lontano. Dobbiamo educare all’insuccesso. Imparare a fallire, a non avere paura di sbagliare, a comprendere che il valore di una persona non si misura in voti, esami o scadenze rispettate. Dobbiamo insegnare ai giovani che non esiste un unico percorso giusto, che la vita non è una gara e che cadere non significa essere condannati a restare a terra.
Cure psicologiche per pochi
E poi c’è un’altra verità scomoda: le cure psicologiche appartengono solo ai ricchi. Un percorso terapeutico privato costa centinaia di euro al mese, cifre inaccessibili per la maggior parte degli studenti, spesso già schiacciati dal peso economico della vita universitaria.
Pochi i servizi pubblici
I servizi pubblici sono pochi, lenti, con liste d’attesa interminabili. Chi soffre di ansia, depressione o stress non può permettersi il lusso di aspettare mesi per un appuntamento. E così il disagio cresce, si sedimenta, fino a diventare insopportabile. Dopo ogni tragedia, si parla di potenziare i servizi di supporto, di investire di più nel benessere degli studenti. Ma queste parole restano spesso sulla carta. Servono azioni concrete: più sportelli di ascolto, psicologi accessibili, tutor che possano seguire da vicino chi si trova in difficoltà. Serve un’università che non sia solo un esamificio, ma un luogo in cui gli studenti siano persone, non numeri. La morte del ventisettenne non deve essere solo un altro dato, un altro titolo di giornale. Deve essere un campanello d’allarme per cambiare un sistema che, così com’è, sta fallendo nel suo compito più importante: formare persone.
Università e solitudine, l’invisibile dramma