Teggiano. Oggi il Bello torna ancora nel Vallo di Diano, stavolta per incontrare Cono Cimino, poeta e attore di teatro, e farsi raccontare l’impegno e l’amore che egli profonde nella sua opera di sensibilizzazione e divulgazione della lingua degli avi: Il dialetto.
Cono Cimino è infatti anche segretario e socio fondatore di “More Dianense”, un’ associazione culturale no-profit che, anche in accordo con le istituzioni locali, si occupa del recupero della lingua e delle tradizioni del Vallo, attraverso corsi di dialetto nelle scuole, patrocinio di pubblicazioni di testi e poesie in vernacolare, progetti teatrali e studio metodico della linguistica.
Tutto. Un amore primogenito, un amore dovuto perché sentito, un richiamo a quel mondo contadino, antico che mi ha cresciuto ed è ciò che mi permette di esprimere la parte più profonda di me. Che quel mondo oggi esista o non esista non lo voglio sapere. Io l’ho vissuto. La mia esperienza in teatro poi, mi ha fatto crescere molto nell’ abbracciare questo sentimento e a tradurlo in parole anche nella ricerca attenta delle espressioni: Pirandello e Miller (“Sguardo dal Ponte”) sono stati molto significativi da questo punto di vista.
C’è tanto sapere, tanta cultura nella lingua dei nostri padri, l’aspetto patrimoniale è notevole. La semplicità e l’immediatezza delle espressioni scandiscono il ritmo della giornata lavorativa del contadino. Il suo rispetto per la natura dalla quale non si prende mai più di ciò che serve. Un espressione molto bella che mi viene in mente è “Ddo’ arrivamu chjandamu lu zippu” (“dove arriviamo mettiamo il segno” ; ”non andiamo oltre quello che possiamo dare” ndr.), che rispecchia perfettamente questa filosofia. Filosofia che mi sono portato dietro anche durante la mia carriera militare.
L’ aspetto esoterico, la magia e la spiritualità sono anche essi parte di questo patrimonio di conoscenze. Le visite annuali presso il santuario della Madonna del monte di Viggiano e Novi Velia erano momenti in cui la comunità si riuniva, si faceva il pellegrinaggio assieme, ed ognuno portava qualcosa per condividere con gli altri l’abbondanza della terra. La condivisione era parte fondamentale nella vita della comunità. Vi erano anche figure di rilievo attorno alle quali la gente si riuniva, e il cui scopo era quello di interpretare i segni dal mondo circostante e propiziare il raccolto: Ricordo “Zì Martinu ri Vilanza” (un contadino del luogo noto per le sue doti “divinatorie”) che durante il solstizio, posizionava una tinozza fuori casa per farvi specchiare la luna piena nell’ acqua.
La Cibbia è sostanzialmente la vasca per le abluzioni che si trova all’ interno della Sinagoga. A Teggiano abbiamo il piacere di avere questo edificio, grazie alla migrazione, nel 1492, di ebrei sefarditi (esuli ebrei fuggiti dalla spagna nel XVsec. successivamente al decreto Alhambra che ne ordinò l’espulsione). La comunità ebraica a Teggiano riuscì a integrarsi molto rapidamente, soprattutto perché la comunità locale ne apprezzava le doti di abili artigiani. I resti di questo edificio sono situati nella Cupa (toponimo che indica una zona concava ndr.) presso i monti di Teggiano costruita secondo i dettami del Levitico. Ma come si lega questo al titolo del libro? I resti della sinagoga rappresentano il nostro passato, la cupa rappresenta il sentiero stretto e buio da percorrere, il sentiero di un cammino interiore, spirituale, un elemento che ricorre spesso all’ interno delle religioni Abramitiche e anche nei testi di cantautori come Vinicio Capossela. Infine La Cìbbia è la sorgente purificatrice, tornare a immergersi in quella parte più profonda di se”
Nella mia raccolta “Illusioni del vento”, nella poesia “D’Autunno” ci sono questi versi finali che cito: Il contadino assorto nel vago pensiero/fissava speranzoso lo sguardo al cielo/ e si custodiva nel pastrano scuro. Il termine “si custodiva” l’ho utilizzato al posto dell’italiano “si copriva” “si proteggeva (dal freddo)”, rappresenta l’italianizzazione del vernacolare “Custurisci”. Questa parola porta con se il senso della custodia dell’infante stretto al seno materno.
Finesta. A questa poesia mi sono molto affezionato perché è stata quella che più di tutte mi venne immediata, quasi una folgorazione. A ispirarmela fu una lacrima di vernice, sull’ anta di una finestra, non ancora asciutta che mi fermai ad osservare. Questa finestra è stata chiusa in una notte di tempesta, con la casa ormai abbandonata. Chi non vi abita più è andato a cercare fortuna in Argentina e l’augurio è che il padrone possa trovare la casa calda e illuminata dalla luce che la finestra lascia filtrare, quando finalmente tornerà a casa: Quando la lacrima sarà asciutta. Qui sono andato indietro con la mente a raccontare, avendone sentite testimonianze dirette, il dramma della emigrazione. Il dramma intimo e profondo di chi lascia l’amore primogenito, materno con la propria terra alla ricerca di un futuro migliore
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