di Nina Fabiani – testo raccolto da Marianna Addesso
Tempi duri anche per chi svolge una “missione” impegnativa, professionalmente e umanamente. Istituzionalmente strutturata, ma sempre più spesso assimilata dalla vulgata a “un lavoro” quasi decentemente retribuito. Se poi si scopre l’innata combinazione di animus e anima, affidata alla bontà di una percentuale di lettori, bassa ahinoi in Italia, ci si può auspicare un sereno scorrere di anni.
E Massimo Felice Nisticò che aveva intuito, metabolizzando il passato e studiando il presente, ne ha fatto un sistema di vita per il suo futuro.
Chirurgo di professione, lettore instancabile, membro di circoli culturali dove la Bellezza impera e le Muse fanno fatica a star dietro ai propri amanti, Nisticò “partorisce” un altro lavoro. Dopo la raccolta di racconti Un’altra stagione (Premio “Cesare Pavese”), i romanzi Carne (finalista Premio “Carver”) e Sono finite le stelle cadenti, nel 2014, ha regalato ai suoi lettori qualcosa che somiglia a un romanzo, ma è straordinariamente molto più di un semplice romanzo.
Per i lettori attenti ogni pagina è una scena: personaggi, voci, rumori, amori e umori, sono propri di un set dove Massimo è pronto a dare il via, sottovoce, col megafono: Ciak, si gira!
Perché la copertina è affascinante. Soggetto enigmatico: un uomo, solo, si avvia, dove? sotto un cielo cangiante tra una terra che sembra inghiottirlo e un’acqua paludosa che ne riflette l’immagine;
o perché il titolo nasconde qualcuno e qualcosa difficili da immaginare;
forse perché la lettura impegna, e lo si scopre pagina dopo pagina, la mente, il cuore, l’intelligenza, la cultura, la conoscenza, le conoscenze.
Perché non leggere “Io sono un senza nome”
perché l’incipit, dopo le primissime pagine – dalla dedica “alla Propaganda”-, fa sprofondare il lettore in un vortice. Si ha la sensazione di entrare in una bolgia, dal terrore alla tragedia.
È la grande storia che genera i suoi figli, che li distrugge. L’eterna lotta tra Eros e Thanatos.
Sono quei figli che divorati e rigettati la costruiscono.
Si vorrebbe chiudere il libro e tentare di dimenticare ma quel grande circo, un Barnum più che millenario, è un insieme di tendoni, come cerchi, uno nell’altro.
Sono le piccole storie, dove si dipanano gomitoli freudiani e inconscio collettivo.
Personaggi, attori essi stessi, alla ricerca della propria identità, entrano e (oltre l’11 settembre collettivo e personale), escono. Cercano di emergere disperatamente, fuggono e rientrano dal e nel proprio cerchio. Invadono quelli altrui, pregni di pathos vecchi e nuovi.
Convergono tutti immancabilmente al centro, il grande vuoto, Ground Zero, per scoprirsi ancora vivi e consapevoli, in grado di accettare la verità. Le verità, eredi di trascorsi che hanno tentato di mascherare o rielaborare inconsapevolmente.
Il lettore lo percepisce, tornando alle pagine precedenti: tra “Let it be” e il Psalmus 149, 1-2, corre lo stesso filo rosso che lega le icone bizantine, Pistoletto e Hopper.
Non a caso entrano e si aggirano nel set e dietro le quinte altre figure: sono artisti, mai figuranti, da Woody Allen a Karen Blixen. Continenti culturali affini e diversi, frammenti di una sola Pangea. L’Hopper di C’era una volta in ’America appartiene allo stesso filone del Pranzo di Babette.
Meridiani e paralleli, nella rete preesistente internet, hanno ingabbiato uomini e cose in drammi personali e non, provocando dolori e ferite. Quelle che, malamente suturate, hanno in-formato i personaggi di Massimo Nisticò.
Donne forti nell’apparente fragilità di chi sa, conosce e ama la bellezza come dettato di status sociale, fanno da specchio a uomini fragili, detentori di una vulnerabile superiorità ereditata da altri maschi.
Solo come campo cinematografico si può e forse si deve leggere Nameless: riprese di un film che alterna la poesia degli amori, dei desideri insoddisfatti, alle tenerezze malcelate, al baratro dei teatri di guerra, quelli di ieri, di oggi, quelli del singolo e della collettività.
La complessità della trama e dei temi è tanta e tale che induce a immaginare non un colossal, piuttosto una serie perché ogni capitolo si propone come faccia di un poliedro.
La chiave di volta della complessa architettura che Massino Felice Nisticò ha avuto la sensibilità e la capacità di costruire è la citazione di Schopenahauer: “E ogni giorno è una piccola vita”.
Basterebbe già questo per imparare a vivere meglio e, senza poter tornare allo stato di natura, capire che in ognuno, nello scrittore soprattutto, si celano vero e falso.
Massimo Felice Nisticò regista, protagonista e attore, spettatore, ha saputo, potuto, voluto seguire ragione e sentimento senza perdersi nel mare magnum dello sconforto e della disperazione.
Solo? no, l’intimo naufragare ci appartiene intimamente e forse inconsapevolmente come quando si avrebbe voglia di entrare in un film o farne uscire il personaggio più amato. Abbiamo ancora tanto da imparare: il Woody Allen della Rosa purpurea del Cairo che traduce la finzione in poesia, è il Massimo Felice Nisticò chirurgo, narratore, poeta, cronista di se stesso.
Tutto il resto è da scoprire, come un regalo inaspettato.
Ogni lettore può aggiungere un suo pensiero, una riflessione da dedicare allo scrittore. Non basta il convenzionale “grazie”.
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