Anche in tempi frenetici e saturi di suoni ed immagini, chi non si concentra sul proprio flusso di pensieri e desideri, lasciandolo correre come un treno che “all’incontrario va”?
In effetti il treno è una colonna portante nella produzione artistica e ha rappresentato la porta di uscita dal ciclo delle stagioni per le genti delle campagne, che nella velocità del moto meccanico vedevano la rivalsa dell’uomo sulla natura.
Quello per Yuma doveva portare attraverso le praterie del grande ovest i mezzi per il riscatto di un’esistenza grama nel primo pomeriggio; forse il treno di Pasternak è lo strumento con cui la redenzione collide contro amare realtà lontane dalle aspettative di un futuro più equo.
La prima tratta ferroviaria d’Italia è stata quella che univa Napoli a Portici, inaugurata il 3 ottobre 1839 alla presenza di tutte le personalità più rilevanti del Regno delle due Sicilie.
Era a doppio binario per una distanza di 7 chilometri e 250 metri; ci vollero 3 anni per realizzarla come parte di un progetto più ampio che, nel 1844, arrivava a Nocera Inferiore attraverso Castellammare (1842), Pompei, Angri e Pagani.
Il progettista era Armand Joseph Bayard de la Vingtrie; egli ottenne la concessione di sfruttamento ferroviario per 99 anni in cambio della realizzazione a proprie spese delle tratte ferroviarie, fino a Salerno e ad Avellino.
Gli ambiziosi progetti del Bayard tracciavano anche una linea transappenninica fino al porto di Manfredonia; senza dubbio avrebbe agevolato lo sviluppo economico del territorio collegando il mare Adriatico con il Tirreno; tuttavia non si realizzò.
A spese del governo si costruì una linea che collegava Napoli alla reggia di Caserta, prolungata fino a Capua e terminata nel 1844.
Il Bayard morirà a Parigi nel 1875 purtroppo senza lasciare eredità.
Nonostante l’entusiasmo iniziale, dal 1844 fino al 1861 non vennero realizzati ulteriori progetti ferroviari da parte dei Borbone; il regno delle due Sicilie completò circa 130 chilometri di strade ferrate, prevalentemente tra le provincie di Napoli, Caserta e Salerno.
Senza infrastrutture ferroviarie erano i territori dell’Abruzzo, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia, insieme alle Marche e all’Umbria nello Stato Pontificio dove insistevano 101 chilometri di linee ferroviarie.
La situazione negli altri territori italiani assumeva toni differenti; nel 1853 il Regno di Sardegna inaugurava il traforo dei Giovi, 3250 metri di galleria lungo la tratta Torino-Genova.
Esso completava (all’alba della proclamazione del regno d’Italia) un impianto ferroviario di circa 850 chilometri a fronte di 607 chilometri costruiti dall’amministrazione austriaca nel lombardo veneto, compreso il ponte sulla laguna che collegava Venezia alla terraferma.
Solo un mezzo per spostare persone e merci con relativa rapidità? Allora possiamo accontentarci dei collegamenti embrionali; non serve porre particolare attenzione ai distretti industriali, ai siti di produzione delle materie prime, alle quote di esportazione.
Se assume un significato per lo sviluppo sociale ed economico dei territori, allora il treno è una colonna portante della visione strategica di chi governa le nazioni con un occhio al futuro.
Dal 1861 il regno d’Italia diede molto valore alle infrastrutture ferroviarie. Infatti nei primi dieci anni di vita del regno, aggiunse altri 4000 chilometri agli impianti ferroviari pre esistenti, aumentandone il volume fino a 6430 chilometri; di questi 1372 nell’Italia centrale e 1777 nell’Italia meridionale e nelle isole. Delle 34 provincie inizialmente sprovviste di rete ferroviaria, solo 9 erano ancora scollegate.
Nei due decenni successivi le difficoltà geologiche non impedivano di arrivare a 18394 chilometri; si assicuravano tutti i collegamenti principali, necessari alla vitalità economica ma anche alla difesa dello Stato.
Un lavoro titanico, che puntava a distribuire a tutti un angolo di modernità nei collegamenti tra le austere periferie rurali e la vita delle grandi città.
Non credo si possa ridurre il fenomeno dell’espansione ferroviaria italiana solo ad un prodotto della spesa aggregata nel bilancio dello stato; penso che sia stato un tentativo di ridurre le distanze sociali e culturali tra le differenti anime della penisola italiana; finalmente la volontà di dare impulso all’idea che l’isolamento non era una condizione di vita ineluttabile.
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