Nicola Calzolaro è il direttore generale di Federalimentare, la Federazione italiana dell’industria alimentare, organizzazione datoriale aderente a Confindustria che rappresenta, tutela e promuove l’industria italiana degli alimenti e delle bevande. Con un fatturato annuo di circa 155 miliardi di euro (dato 2021), contribuisce per l’8,6% al PIL nazionale. Al suo attivo una laurea in filosofia conseguita con lode. Oggi è un manager tutto immerso nelle questioni del mercato nazionale ed internazionale.
“Non ho mai svolto attività professionale strettamente legata ai miei studi universitari. Sono stato sindacalista, per un po’ giornalista, poi nel sistema confindustriale, nell’Anicav, l’Associazione Nazionale Industriali Conserve Alimentari Vegetali, come direttore. Poi, per sei anni, ho diretto Confindustria Salerno. Infine sono approdato a Federalimentare. Gli studi di filosofia e gli studi storici, certamente mi sono stati di grande aiuto, soprattutto dal punto di vista del metodo: mi hanno aiutato a inquadrare i problemi, ad avere un approccio razionale e critico”.
“Sicuramente privilegio il fare, l’essere all’apparire. Mi piace costruire percorsi, aprire strade. Mettere insieme è molto faticoso e richiede un lavoro che metta da parte l’apparire. Sono una persona riservata e amo la mia privacy”.
“Non saprei. Forse dipende dal mio essere radicato nell’esperienza cattolica e dalle scelte di fondo di vita compiute”.
“L’industria alimentare è il secondo settore manifatturiero del Paese, dopo il metalmeccanico. Il fatturato del 2021 dell’industria alimentare è stato di 155 miliardi. E’ un sistema vastissimo, diffuso in maniera capillare sul territorio nazionale anche se con diversità di tipologie e dimensioni delle aziende. Se consideriamo anche le piccole e le piccolissime aziende troviamo di fronte a un’incredibile presenza sul territorio nazionale”.
“Le aziende con oltre nove dipendenti sono poco meno di settemila, un numero che la dice lunga sull’estrema polverizzazione. Se consideriamo quelle con meno di nove dipendenti arriviamo a numeri incredibilmente alti”.
“Sicuramente è favorito il radicamento sul territorio nazionale, con vantaggi in termini di resilienza e di capacità di resistenza. Ma emergono svantaggi rispetto ad una capacità effettiva di internazionalizzazione, di innovazione e di investimento”.
“L’eccellenza è una condizione necessaria, molte volte non è sufficiente. Se faccio un prodotto di altissima qualità, ma non ho la struttura organizzativa e finanziaria per portare fuori dalla mia cerchia ristretta questa eccellenza, vado in sofferenza o, quantomeno, non riesco ad esprimere tutte le mie potenzialità. La dimensione ridotta, inoltre, spesso impedisce di poter accedere ai mercati internazionali, quelli che danno il maggiore valore ai prodotti. Ciò comporta minori risorse per innovazione, per il brand e minore creazione di ricchezza sul territorio.
Per fare un esempio che ci può interessare come territorio, negli ultimi dieci anni l’industria alimentare del Mezzogiorno, si è molto orientata al mercato interno che è stagnante, mentre ha sviluppato meno il mercato internazionale che è quello che produce ricchezza e valore per l’azienda, per il territorio, per il Paese e ciò spiega l’affanno dell’industria alimentare meridionale”.
“Non seguiamo in senso stretto le aziende che è compito delle nostre Associazioni, lavoriamo con i Ministeri, con il Governo, con il Parlamento, le istituzioni in senso lato e con le altre organizzazioni di rappresentanza per creare le condizioni più favorevoli per le aziende sul mercato interno e internazionale.
“Nel 2021 l’industria alimentare ha raggiunto un obiettivo importante con 40 miliardi di export su oltre 150 miliardi di fatturato a cui sia aggiungono circa dieci miliardi per l’agricoltura.
Seppure di poco siamo riusciti a crescere anche nel periodo del Covid.
Negli ultimi anni avevamo una tendenza di crescita molto significativo. Nel 2021 ci siamo attestati sul +2. La crescita c’è stata, ma in forma ridotta rispetto agli anni precedenti.
Vedremo cosa accadrà con questa follia della guerra”.
“Il settore alimentare è molto esposto sul fronte energetico: ci sono interi settori che sono energivori, per citarne qualcuno: lattiero-caseario, salumi, surgelati, molitorio, mangimistica. Gli aumenti che abbiamo registrato non sono nella fisiologia, in quanto arrivano anche oltre il 100%. Il problema dei costi energetici c’era da prima della guerra.
A ciò si aggiunga che, da poco meno di un anno, stiamo registrando delle fortissime tensioni sui prezzi delle materie prime con un andamento, anche qui fuori controllo
C’è da dire che la guerra entra prepotentemente dentro una linea che, da quasi un anno, ci vede in sofferenza”.
“La guerra è un evento drammatico per chi vive sotto le bombe. Ma ha effetti devastanti a largo raggio. Abbiamo Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, per esempio, particolarmente dipendenti dal grano e dai cereali della Russia e dell’Ucraina, parliamo del’80% di importazione. Ciò significa che interi Paesi rischiano forti contrazioni nell’approvvigionamento di materie prime fondamentali, con conseguenti rischi di crisi alimentari. La carenza di cibo, infine, diventa elemento di ulteriore instabilità sociale. Senza contare le grandissime tensioni sui prezzi che si ripercuotono sulle imprese e sui consumatori”.
“Pochi pensavano che ci sarebbe stata una escalation di questo tipo. E’ una guerra che ci riporta alla brutalità delle guerre ottocentesche e della prima metà del novecento. Una cosa che non avremmo mai immaginata. È anche vero che nel mondo ci sono più di cento guerre, che sono definite a bassa intensità o locali, ciò significa che la guerra, purtroppo, non è mai scomparsa. In questo caso, però, c’è il coinvolgimento diretto una nazione che ha armi nucleari e che ha anche dichiarato di essere disposta a usarle. Questo crea sconcerto, ansia, paura e preoccupazione. Sarebbe auspicabile avere delle menti lucide capaci di ridisegnare gli equilibri mondiali, possibilmente, secondo uno schema di pace e non solo di deterrenza militare”.
“I Francesi hanno inventato il Nutri-Score, altri l’hanno sposato. Il Nutri-Score è un sistema di etichettatura fronte pacco che indica il valore nutrizionale del prodotto secondo una gradazione di colori. Si va dal verde al rosso e con le lettere A,B,C,D,E. Il verde da il via libera ai consumi, mentre il rosso implica un allarme per la salute del consumatore. Funziona come un semaforo.
Noi abbiamo un’idea diversa: pensiamo che non esiste cibo buono e cibo cattivo, ma esistono diete buone e diete cattive, stili di vita adeguati e stili di vita inadeguati.
Il Nutriscore, per semplificare, ti dice: questo cibo è rosso, fai attenzione, se è verde lo puoi consumare. Noi diciamo: tu puoi mangiare qualsiasi prodotto, ma dipende da quanto ne mangi, dal tuo stile di vita, dalla frequenza del consumo. Le faccio un esempio: chi pratica lo sci di fondo consuma fino a 600 grammi di pasta al giorno. Sono pazzi? No. Dipende dal loro stile di vita. Questi sciatori sottopongono l’organismo ad importanti sforzi fisici e hanno bisogno di carboidrati in maniera sufficiente”.
“I Francesi propongono un orientamento direttivo, indicando e, in qualche modo, imponendo quali cibi è preferibile consumare e quali evitare. La loro attenzione è al singolo prodotto, classificato secondo criteri anche discutibili dal punto di vista scientifico, noi proponiamo un discorso complessivo, informativo, che lascia al consumatore la scelta, senza demonizzare alcun alimento, che guarda alla dieta e allo stile delle persone. Noi diciamo che l’etichetta deve informare il consumatore, renderlo consapevole.
In Nutriscore c’è anche un errore tecnico perché costruito sui 100 grammi”.
“Se costruisci un meccanismo sui cento grammi l’olio d’oliva diventa “pericoloso” -secondo questo schema – per la salute, ma è evidente che non esiste una porzione di 100 grammi d’oliva”.
“L’etichetta italiana Nutrinform è stata proposta dal Ministero dell’Agricoltura, il Ministero della Salute, dello Sviluppo Economico e degli Esteri con il supporto di due istituti scientifici, il Crea, Ente di Ricerca per l’Agricoltura e l’Istituto Superiore di Sanità, a cui abbiamo collaborato insieme ad altre organizzazioni di rappresentanza.
Nutrinform informa il consumatore sul fatto che la porzione che sta consumando contribuisce ad una percentuale del suo fabbisogno quotidiano di alcuni nutrienti”.
“Il Nutriscore, calcolando sui 100 grammi arriva a dei paradossi e distorsioni. Per rispondere alla sua domanda: chi mangia 100 grammi di pizza il sabato sera? Non esiste una pizza da 100 grammi perché si consuma una pizza di almeno 300 grammi. Allora poiché la pizza tende al verde ne posso mangiare quanta ne voglio, anche più volte al giorno? Credo sia difficile da sostenere”.
“Al momento il Nutrinform è un sistema volontario e previsto come sperimentazione dalla normativa comunitaria. Ma é in atto una vivace discussione, perché dovranno arrivare proposte normative dalla Commissione. Siamo partiti in ritardo, ma abbiamo recuperato costruendo alleanze con altri Paesi europei”.
“Si stanno ponendo dei dubbi. I produttori di formaggio, per esempio, avanzano riserve sul Nutriscore perché molti formaggi, prodotti tipici di cui i francesi sono orgogliosi, essendo grassi, di conseguenza, si vedrebbero applicare il bollino rosso o arancione. Anche gli Spagnoli cominciano ad avere dubbi per le conseguenze negative sull’olio d’oliva.
“Anche sul vino abbiamo dovuto lavorare molto in Parlamento e nella Commissione Europea per la lotta contro il cancro, dove stava passando un’idea del vino dannoso a prescindere dalle quantità. Siamo tutti contro il cancro, ma vale sempre lo stesso principio: se ne bevo un bicchiere a pranzo e un bicchiere a cena so che fa bene. Ciò che fa male è l’abuso.”.
“Vedremo. La discussione è aperta e le posizioni sono chiare. Ci auguriamo che prevalga il buon senso e aspettiamo le proposte legislative della Commissione. Parliamo, tra l’altro, di una bevanda che fa parte dell’identità delle nostre popolazioni.
“Ad agosto c’è stato il Food System Summit e, con i Ministeri, in particolare il MAECI, abbiamo dovuto sostenere una battaglia importante a favore delle diete tradizionali contro la tendenza all’omologazione.
Non parliamo di banalità. Si sta discutendo del futuro del cibo e di tutti gli assetti che ci sono dietro. Se parlo di cibo parlo di produzioni agricole, di trasporti, di ricerca, di innovazione, di identità, di cultura e stili di vita”.
Siamo direttamente coinvolti perché comproprietari del marchio Cibus insieme a Fiere di Parma.
“Già l’anno scorso abbiamo fatto Cibus, fu una scommessa. Era la prima fiera importante in presenza in epica Covid.
Quest’anno ci aspettiamo un rafforzamento e un consolidamento. Ci aspettiamo un ritorno importante perché Cibus è l’immagine del Made in Italy e dei prodotti italiani nel mondo. Ci aspettiamo numeri interessanti, anche se per via della guerra, con molta probabilità registreremo delle assenze”.
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